Non basta rinunciare al privilegio di specie

Intervista a M. Reggio di Lorenzo Poli

Fonte: Pressenzaprima parte dell’intervista / seconda parte

 

I movimenti per la liberazione animale tornano a puntare il dito contro la struttura-lager del Casteller, in Trentino, in cui sono detenuti alcuni esemplari di orsi per la sola colpa di essere tali. Assemblea Antispecista, Centro Sociale Bruno ed altre organizzazioni hanno programmato per il 10 aprile la prossima Manifestazione Stop Casteller, facendo appello ad associazioni animaliste, collettivi e tutte le realtà ambientaliste, antifasciste e anticapitaliste. Di questo e molto altro ne parliamo con Marco Reggio

Cosa è il Casteller e in quali condizioni vivono gli orsi al suo interno?

Il Casteller è una prigione, anche se ufficialmente è un centro di gestione della fauna selvatica della Provincia Autonoma di Trento. Si tratta di un’area, vicino al capoluogo, con diverse recinzioni. In quella interna sono stati collocati gli orsi che l’amministrazione ha considerato “problematici” a seguito di incidenti con umani (molto rari, in realtà, e non gravi) o danneggiamenti a proprietà di allevatori e agricoltori. Gli orsi, assenti sull’arco alpino da secoli, sono stati reintrodotti dagli stessi attori istituzionali a partire da fine anni Novanta, con il progetto Life Ursus. Allora l’orso era visto come una possibilità di attrarre turismo e di portare fondi europei. I primi dieci individui inseriti sul territorio sono diventati 50 e poi circa 80 (un numero comunque risibile) e nel frattempo non sono state messe in campo le iniziative di educazione della popolazione e dei visitatori necessarie per una convivenza pacifica. Ecco creato il mostro: l’orso che abita, attraversandole liberamente, le valli montane è un pericolo a prescindere, e la risposta è la cattura o l’abbattimento. Negli anni le vittime – sparite, uccise o imprigionate – sono state 34. Con la Giunta leghista la logica securitaria ha poi subito un’accelerazione che ha comportato ordinanze di cattura per alcuni orsi per ora latitanti e la reclusione per tre di loro. Si tratta di M49, famoso per essere fuggito dal Casteller per due volte, DJ3, figlia di quella Daniza uccisa durante la cattura nel 2014 dopo una lunga latitanza, ed M57. La loro condizione, descritta come positiva dalle autorità, viene alla luce a settembre 2020 con la relazione del CITES (la Commissione Scientifica per l’applicazione della Convenzione sul commercio internazionale di specie animali e vegetali in via di estinzione, Ministero dell’Ambiente). In questo documento vengono riportate ed esaminate le annotazioni giornaliere dei veterinari negli ultimi mesi. Un diario della sofferenza e del progressivo degrado psico-fisico dei tre prigionieri il cui registro medico-etologico, pur freddo e distaccato, suscita un’angoscia e una tristezza immense. La sintesi del CITES è che gli spazi sono angusti, del tutto insufficienti, i bisogni etologici più elementari non vengono rispettati, gli orsi non hanno nulla da fare, rifiutano il cibo, compiono movimenti stereotipati sempre più spesso, vengono trattati con ansiolitici. Anche per chi pensa che le gabbie possano essere accettabili se è garantito un certo standard di “benessere” la situazione è intollerabile. La Provincia, nei mesi successivi, nega la gravità della situazione e impedisce a chiunque di accedere alla struttura. Due parlamentari che, sull’onda della manifestazione nazionale di ottobre promossa dalla campagna StopCasteller, in cui gli/le attivistx hanno divelto decine di metri della recinzione esterna, chiedono di entrare vengono respinte e potranno accedere solo dopo aver chiamato i Carabinieri, dopo una lunga attesa. Non potranno fare riprese o fotografie. Le bugie del Presidente provinciale Fugatti e dell’Assessora Zanotelli vengono però clamorosamente smentite a febbraio, quando viene diffuso un video girato clandestinamente, in cui si vedono le reali condizioni, gli spazi, i prigionieri.

 

Il Casteller è “il problema che si spaccia per soluzione”? Quali interessi economici e di lobby rappresenta?

La definizione mi pare perfetta. Il Casteller incarna una mentalità e un procedimento. La mentalità di chi vede in ciò che esce dall’immagine dell’umano paradigmatico (bianco, maschio cisgender, eterosessuale, adulto, abile, e soprattutto, appunto, appartenente a Homo Sapiens) un intralcio nel funzionamento della società di produzione/consumo. Il procedimento, come si può intuire, comincia con la creazione di un allarme, e dunque di un mostro, nell’immaginario: l’orso che si avvicina alle case, che prende i rifiuti dal cassonetto o che magari mangia un altro animale proprietà di qualche allevatore, è dipinto subito come “problematico”. Le rare aggressioni ai danni di umani, mai realmente pericolose, vengono narrate in modo sensazionalistico, distorto, ignorando i comportamenti errati degli umani e presentando la “belva” come un soggetto in preda a una furia cieca, incontrollabile, e soprattutto senza motivazioni prevedibili. Si tratta della creazione di un bisogno securitario, né più né meno come avviene con la microcriminalità. La risposta è la prigione e l’ostentazione della repressione. Quando M49 fugge e viene ripreso per la seconda volta, viene portato trionfalmente al Casteller a bordo di una jeep, allestendo uno spettacolino che ha evidentemente tutte le caratteristiche del ritorno a casa del cacciatore con le prede. E arriviamo a quali gruppi sono rappresentati da questa logica: cacciatori e allevatori, entrambi bacino elettorale della Lega. I primi sono spesso il braccio armato delle istituzioni in questi casi; lo si vede bene quando viene lanciato l’allarme relativo alla sovrappopolazione di cinghiali, lupi, nutrie, dove frequentemente le amministrazioni locali delegano a loro l’intervento. Spesso poi, a proposito di problema spacciato per soluzione, la proliferazione dannosa di una specie selvatica è dovuta proprio alla reimmissione in natura da parte dei cacciatori, con i loro progetti di “ripopolamento” (leggi: allevamento di animali da reintrodurre sul territorio per poi divertirsi a ucciderli). I cacciatori trentini sono gli stessi cui ammicca, con evidente machismo, la Lega di opposizione dai primi anni duemila ad oggi, con i banchetti a base di carne d’orso. Gli allevatori sono certamente un gruppo più complesso, i cui interessi dipendono anche da fattori culturali e dalle politiche messe in campo. In Abruzzo, per esempio, una zona in cui l’orso è presente in maniera anche maggiore, non si è manifestato un problema così serio di convivenza fra questa specie e i pastori. In Trentino, sono invece le proteste di questa categoria, tra le altre cose, a spingere Fugatti alla guerra agli orsi, nonostante i danni causati siano poco più che trascurabili. Inutile sottolineare che, al di là della retorica ostentata sui giornali e al netto di qualche occasionale eccezione, quando un allevatore perde una pecora sbranata da un grande carnivoro, le sue lacrime sono più per il portafoglio e per il proprio orgoglio di “padrone” che non per la vita spezzata dell’individuo appartenente al suo bestiame (anche perché il “normale” funzionamento della sua attività prevede che sia lui stesso a mandarla al macello). L’altro grande interesse economico, in questa storia, è poi quello legato proprio alla reintroduzione degli orsi sull’arco alpino. Il Progetto Life Ursus, a fine anni novanta, nasce per inserire un elemento di sostegno al turismo (l’orso-peluche che campeggerà sulle brochure pubblicitarie, sulle confezioni dei prodotti locali, sui siti di promozione delle pro loco) e per drenare fondi europei, fondi che peraltro dovrebbero essere reinvestiti per gestire una pacifica convivenza (cosa non avvenuta, evidentemente).

Agli schiavi neri, nel 1800, veniva diagnosticata una malattia inventata chiamata “drapetomania”, ovvero “l’irresistibile voglia di scappare”. Cosa possono apprendere gli esseri umani dagli orsi scappati dal Casteller nelle forme di ribellione e di resistenza politica?

Questo riferimento è molto interessante. La patologia ipotizzata da Samuel Cartwright nel 1851 a noi sembra grottesca, residuo di un tempo lontano, ma a metà del XIX secolo era pienamente nell’ordine del discorso, come sarà poi tutto il razzismo scientifico. Ciò significa che davvero si poteva pensare che un individuo non-bianco in catene non desiderasse la libertà se non per qualche malfunzionamento nella sua gestione da parte del padrone e, soprattutto, per l’insorgere di una malattia. Cartwright ci ricorda che la Grecia antica “nel solo termine di  δραπέτης  condensò il darsi alla latitanza e la relazione del fuggiasco con la persona da cui fuggiva”. In modo analogo – pur ricordando che queste analogie sono solo parziali – gli animali non umani negli allevamenti, nei circhi, negli zoo, nei laboratori di ricerca, spesso non hanno molte forme di resistenza a disposizione, a causa della selezione genetica che “premia” la docilità o che letteralmente li disabilizza e dei dispositivi di controllo pressoché totale. Così, mettono in atto forme disperate di protesta, di richiesta di aiuto, di manifestazione di disagio: automutilazioni, aggressività reciproca, digiuno, comportamenti stereotipati. Spesso i termini che usiamo per descriverli denotano una narrazione patologizzante, che non riconosce il disagio della prigionia, che se ci pensiamo è invece una cosa ovvia, come è ovvio che oggi noi risponderemmo a Cartwright che se una persona è in gabbia è semplicemente normale la sua “irresistibile voglia di scappare”. Del resto, Cartwright descrive anche la “dysaesthesia aethiopis”, “ebetudine della mente e ottusa insensibilità del corpo”: quella che i padroni usano chiamare rascality, “mascalzonaggine”, sarebbe una patologia che colpisce soprattutto gli ex schiavi che vivono in libertà, che non hanno “un uomo bianco che li diriga e se ne occupi”. Gli schiavi affetti da questa patologia “rompono, devastano e distruggono ogni cosa abbiano a portata di mano […], disdegnano il lavoro […], senza ragione o motivo, sollevano disordini con i soprastanti” (il corsivo è mio). In fondo, anche la critica antipsichiatrica ci ricorda come le categorie del DSM sono spesso solo un modo per depoliticizzare il disagio di chi semplicemente non riesce ad adattarsi a un sistema sociale troppo faticoso, iniquo e crudele. Negli allevamenti o negli zoo, vi sono talvolta individui non umani che riescono a mettere in campo azioni di ribellione più articolate, talvolta collettive, pienamente intenzionali, raramente di successo, ma in molti casi eclatanti o comunque più facilmente riconoscibili come tentativi di autodeterminazione. M49 è fuggito due volte dal Casteller, e la seconda volta ha stupito chiunque: ha superato una recinzione elettrificata e barriere altissime restando fuori dalla vista delle telecamere, eludendo dispositivi pensati apposta per evitare il ripetersi della prima fuga. Ma anche nel primo episodio era stata notevole la capacità di restare latitante, di non farsi prendere per ben 9 mesi. Altri orsi in passato, come Daniza, hanno evitato la cattura a lungo. Questi elementi ci dicono chiaramente che la resistenza animale è un fatto e che questi soggetti non sono le vittime passive che lo stesso animalismo mainstream ha sempre descritto come “i senza voce” (la cui voce sarebbero gli umani “buoni”). Ci spronano a superare una concezione paternalistica in cui ci sono da una parte gli inermi e dall’altra i “salvatori”, eroici liberatori che rinunciano altruisticamente al privilegio umano. Occorre tuttavia ricordare che questi casi sono solo la punta dell’iceberg e non “meritano” più di altri la libertà, ma anzi ci ricordano che durante le loro fughe molti di più sono rinchiusi e impossibilitati anche a ribellarsi. Altrimenti, si rischia di cadere nella logica della “grazia”, un meccanismo ben esemplificato da Sarat Colling nel suo Animali in rivolta, in cui le stesse forze dell’ordine – gli agenti attivi della repressione degli animali in fuga per le vie delle città – accordano la salvezza a quei rari individui che impressionano l’opinione pubblica. Un meccanismo che, come per le vicende umane, non fa che rafforzare la violenza strutturale subita da “quelli che non ce la fanno”. Basti pensare agli occasionali casi di conferimento della cittadinanza onoraria ai/lle migranti senza permesso di soggiorno che hanno compiuto qualche atto di particolare eroismo o tale da suscitare unanime ammirazione: la grazia, proprio come nel caso dell’ergastolo o della pena di morte, è un provvedimento eccezionale, individuale e non motivato dal punto di vista strettamente processuale che conferma la regola, ossia il dispositivo repressivo che viene in quel caso sospeso.

Quali sono le stratificazioni culturali e politiche che, nei secoli, hanno prodotto la dicotomia umano- Natura generando una gerarchia?

Le teorie al riguardo sono parecchie e spesso in contrasto fra loro. Alcune ricercano un momento di “peccato originale”, da collocare per esempio nel primo neolitico, con l’introduzione della stanzialità e dell’allevamento. Altre collegano lo sfruttamento animale, l’ideologia specista che lo sostiene e l’approccio antropocentrico all’uso del pianeta esclusivamente all’ascesa del capitalismo. Penso che la questione sia più complessa. Certamente, l’accumulazione capitalistica e il colonialismo, diciamo a partire dal 1492, portano a un cambiamento di paradigma epocale che determina, se non altro, un’industrializzazione, una standardizzazione e un’accelerazione dell’oppressione dei non umani. Tuttavia, lo specismo in altre forme esisteva prima, così come il patriarcato. Possiamo dire che negli ultimi cinque secoli si è verificato un movimento di estrazione di valore da tre soggetti: la manodopera non europea (schiavi, colonie, ecc.), il lavoro femminile, i corpi degli animali non umani. Questo emerge in modo chiaro dal lavoro di Silvia Federici, per citare un’autrice che ha fornito uno dei maggiori contributi sul tema. In tutti e tre i casi, è stato necessario vincere delle forti resistenze, sterminando i non bianchi, bruciando le “streghe”, sviluppando tecnologie di contenimento degli animali, dalle enclosures (che non a caso sono un simbolo della nascita del capitalismo) fino alla selezione genetica “spinta” della zootecnia di oggi. Tutto ciò si accompagna alla costruzione di un eurocentrismo che è anche antropocentrismo e privilegio maschile: discredito e marginalizzazione delle visioni del mondo “altre”, costruzione di precisi canoni letterari e scientifici, articolazione in discipline e metodi biancocentrici, adozione della linea di pensiero cartesiana in cui il soggetto individuale maschio bianco eterosessuale elabora una visione che legittima la violenza sugli animali in quanto non senzienti, riduzione della natura a un aggregato di risorse a disposizione o, nel migliore dei casi, come un bel paesaggio da consumare con gli occhi, con i risultati ormai ben noti sul piano ecologico. A tal punto che Immanuel Wallerstein ha potuto dire che per comprendere il mondo da un punto di vista non eurocentrico sia necessario “disapprendere buona parte di quanto […] appreso dalle scuole elementari in avanti”. Il soggetto legittimato a pensare e a gestire la società è anche un soggetto adulto e abile: non bisogna dimenticare quanto questa logica sia intrisa di abilismo che si intreccia con la supremazia umana, in un binomio ben illustrato da Sunaura Taylor in Beasts of Burden. Animal and Disability Liberation, di prossima pubblicazione in italiano. Come hanno mostrato le sorelle Ko nello stimolante libro Afro-ismo. Cultura pop, femminismo e veganismo nero, la distinzione fra Homo sapiens e tutte le altre specie animali (un insieme indistinto di “meno-che-umani” che va dalle formiche agli elefanti) è fondamentale per il compimento di questo processo, perché permette di distinguere fra esseri sacrificabili e non sacrificabili, o più e meno sacrificabili. Le persone razzializzate sono animalizzate, quindi, perché la loro maggior vicinanza al polo inferiore, l’animale, è una giustificazione per un trattamento diverso dal bianco dotato di diritti e risorse.

Lo specismo impedisce di vedere gli esseri animali come fratelli, sorelli e compagn* di lotta. Basta rinunciare al nostro privilegio di specie per rendere possibile la convivenza tra umani e orsi?

Non credo sia sufficiente. Individualmente, possiamo fare uno sforzo concettuale, questo è chiaro. Ed è importante. Ma, come per tutti i privilegi, non esiste la possibilità di sovvertirli del tutto senza un lavoro collettivo. Molto concretamente: come posso rinunciare davvero al privilegio di specie? Anche tralasciando il fatto che si tratta del privilegio meno riconosciuto, più difficile da individuare, dobbiamo ammettere che è un privilegio abissale: “loro” possono essere macellati, io no. Questo è il nucleo del privilegio di specie. Se un orso disturba, dopotutto, può essere ucciso. Dobbiamo però iniziare a chiederci in cosa consista più dettagliatamente questo privilegio. Nel caso degli orsi, sicuramente si esprime nell’idea che i boschi siano prima di tutto appannaggio umano: chi intraprende un’attività di allevamento, chi costruisce una pista da sci distruggendo alberi secolari, ma anche chi vuole svagarsi facendo un’escursione, ritiene di aver maggior diritto di intervento o di circolazione sul territorio rispetto alle altre specie. Questa visione va contestata, senza illudersi che in quattro e quattr’otto si possa smantellare, e pensando che, nel frattempo, allentandone la pressione alcune misure concrete possono essere attuate. Etolog*, studios* e anche il buon senso, dicono che su quel territorio sarebbero sufficienti misure di tipo educativo e poco altro (opere di protezione di alcuni terreni, corridoi alimentari per gli orsi, cassonetti dei rifiuti non apribili già adottati, per esempio, in Abruzzo). Le misure di tipo educativo si basano su un principio semplice che è già una prima erosione del privilegio di specie: se percorri i boschi, sei in un luogo abitato da altri soggetti che ne hanno titolo quanto te, ed è buona norma avere delle cognizioni di base sul loro comportamento e sui comportamenti da evitare. Si tratta in fondo di un aspetto di quello che, seppur in maniera ambigua, viene chiamato “turismo responsabile”. Bisogna poi sempre pensare – anche questo è un esercizio di antropodecentramento – che non esiste il “rischio zero”. La vita è rischio, altrimenti non è vita. Andare per i boschi, come in qualsiasi luogo, implica sempre dei rischi di vario tipo. L’umano però è abituato a predare senza essere predato, cacciare senza essere cacciato, deportare senza essere deportato. Quando poi c’è di mezzo il profitto, come nel caso degli allevatori, il privilegio di specie emerge in modo più forte. Qui certamente gli indennizzi sono uno strumento praticabile. Del resto, in Abruzzo la convivenza fra umani e orsi sostanzialmente funziona.

Quali sono gli obiettivi della manifestazione antispecista del 10 aprile?

Liberare gli orsi. Dire chiaramente che le soluzioni di “compromesso” non sono accettabili. Non è accettabile spostare M49 o tutti e tre i prigionieri in una “prigione dorata” (che tanto dorata, in realtà non è, se guardiamo alle proposte del deputato leghista Maturi e di Brigitte Bardot), rendendo disponibili posti per i prossimi soggetti “problematici”. Il Casteller va chiuso, semplicemente, e le soluzioni ai piccoli conflitti fra specie vanno risolte in altro modo, lasciando gli orsi liberi di autodeterminarsi nelle Alpi. Accanto a questo obiettivo chiaro, c’è in ballo una visione generale della gestione del territorio, che i soggetti locali che hanno promosso la campagna insieme ad Assemblea Antispecista, in particolare il Centro Sociale Bruno, hanno ben chiara e che implica non solo una critica allo specismo, ma una rottura con le pratiche di devastazione promosse dall’attuale classe politica. Queste pratiche, come sappiamo, includono una preferenza per il turismo di massa, la promozione della grandi opere (basti pensare alla TAV che arriverà anche in Trentino), un sostegno all’antropizzazione del territorio, quella sì davvero “problematica”.