
Il concetto di intersezionalità nasce nell’ambito del femminismo nero e in particolar modo dall’esigenza di mettere in luce come le diverse oppressioni interagiscano tra di loro. Nel 1989 Kimberlé Crenshaw, docente universitaria, pubblica un paper in cui tratta come una donna nera subisca contemporaneamente razzismo e maschilismo, e come le due oppressioni non siano “sezioni” scindibili, ma categorie che interagiscono continuamente. A partire dal fondamentale lavoro di Crenshaw è divenuto sempre più chiaro il legame indissolubile tra le diverse oppressioni, legate tra loro da quella matrice comune che vede da una parte un sistema oppressivo (ad es. il razzismo) perpetrato da chi porta con sé un privilegio (ad es. la bianchezza) e dall’altro la classe oppressa (ad es. le persone razzializzate) che non è portatrice di quel privilegio (ad es. bianchezza vs. nerezza). Così come vi è una matrice comune nelle dinamiche di oppressione, dovrebbe esserci una matrice comune anche nelle dinamiche di lotta e di liberazione, per cui la liberazione non dovrebbe essere a sua volta trattata come un percorso a “sezioni”, bensì come un qualcosa di totale, che tocchi tutte le classi marginalizzate, verso le quali dovremmo porci come complici. Il riconoscimento e la decostruzione del proprio privilegio è un lavoro complicato e per niente scontato, ma fondamentale affinché si possa parlare di liberazione, resistenza e complicità. Fra questi, il privilegio che tendenzialmente più fatichiamo a riconoscere, perché totalizzante e spesso invisibilizzato, è il nostro privilegio di specie. La specie umana impone da migliaia di anni il proprio dominio sulle altre specie animali, considerate di per sé inferiori e quindi schiavizzabili, sfruttabili e sacrificabili: il sistema oppressivo sarà quindi lo specismo (termine coniato sul calco di tutti gli altri -ismi) perpetrato dall’homo sapiens, portatore di un privilegio di specie, contro gli animali non umani tutti, privi di quel privilegio.
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