Smantelliamo gli zoo! Un’intervista a Rachele Borghi su zoo e colonialità.

 

 

 

Rachele Borghi è professoressa di Geografia all’Università Sorbona di Parigi, geografa queer, pornosecchiona transfemminista. Il suo lavoro s’incentra sulla decostruzione delle norme dominanti che si materializzano nei luoghi e sulla contaminazione degli spazi attraverso i corpi dissidenti e militanti. È autrice di Decolonialità e privilegio. Pratiche femministe e critica al sistema-mondo (Meltemi, 2020). In questa intervista Rachele svela lo stretto legame tra zoo, siano essi chiamati zoo o bioparchi, e colonialità.

 

 

 

 

 

In “Decolonialità e privilegio”, fra quelli che descrivi come «gli elementi costitutivi della colonialità» c’è anche lo specismo. Ciò che emerge dal capitolo dedicato allo specismo è come questo costituisca una forma di oppressione alla stregua delle altre e, in questo senso, strettamente legato alla colonialità. Ti andrebbe di chiarire meglio questo punto?

La colonialità è un insieme di elementi su cui si basa il nostro stare nel mondo oggi. Si è costruita a partire dalla cosiddetta “conquista dell’America” come un insieme di elementi, tra cui la violenza intrinseca, e ha come effetto collaterale il razzismo, perché la colonialità del potere viene fatta su base razziale, ovvero alcuni hanno più potere e valore di altri. Vi è poi il riferimento al capitalismo, che è la maniera di strutturare il mondo in categorie come la razza, la classe e così via, in relazione di subordinazione tra loro.

Si crea così una modernità che è tenuta in piedi da tutti questi elementi, ovvero gli elementi della colonialità. Per questo motivo eliminare il colonialismo non basta per decolonializzare il mondo, senza contare che in realtà il processo di decolonizzazione non è mai terminato, perché ci sono Paesi come la Palestina che sono ancora colonizzati, ma anche perché il processo di indipendenza non è mai finito, dal momento che c’è ancora una serie di dipendenze e di rapporti di dominazione.

Fra gli elementi della colonialità vi è anche lo specismo, perché la specie, come tutte le altre categorie, è servita a giustificare tutta una serie di rapporti di dominazione. Angela Davis, tra le altre, ha messo in luce come combattere il razzismo non sia possibile senza combattere lo specismo, perché il razzismo si è costruito anche a partire da un’idea di gerarchia tra gli esseri viventi e, di conseguenza, su una serie di paragoni tra persone umane razzializzate e animali non umani, che ha permesso di portare avanti politiche razziste e l’idea che ci fossero delle persone umane e delle persone subumane.

Forse per alcuni è troppo semplicistico pensare che eliminando lo specismo si elimini anche il razzismo: ovviamente questa è una raccourci troppo veloce, ma sicuramente non è possibile combattere le oppressioni prendendole una a una, perché sono parte dello stesso sistema. Se ad esempio le scimmie non fossero più il termine di paragone delle persone nere cambieremmo non solo il linguaggio, ma anche le modalità di portare avanti un razzismo nel quotidiano, nei media, e così via.

 

 

 

 

 

Angela Davis

Lo specismo è sempre una pratica colonialista, ma ci sono contesti, spesso poco indagati dallo stesso ambiente antispecista, in cui la colonialità sembra essere più immediatamente riconoscibile. Penso in particolar modo agli zoo, dove l’esposizione dell’“esotico” a un pubblico pagante privilegiato non può non farci venire in mente l’atrocità degli zoo umani, tanto diffusi tra Ottocento e prima metà del Novecento. Casi recenti come quello dello zoo di Augsburg (2005), in cui è stato costruito un “villaggio africano” con persone nere al suo interno, mettono in luce come gli zoo umani siano tutt’altro che superati. Pensi che questo possa essere in qualche modo legato al fatto che il loro modello, quello dello zoo animale, rimane una realtà normalizzata e, anzi, comunemente intesa come educativa?

Non so se arriverei a questa conclusione. Io credo che sia piuttosto una conseguenza del pensiero cartesiano moderno, e cioè pensare di poter semplificare il mondo e riprodurlo in determinati contesti. Questo pensiero ha conosciuto un importante sviluppo negli anni Ottanta. Basti pensare a Las Vegas. Anche se non sembra così lampante il legame, in realtà c’è: Las Vegas è un simbolo della riproduzione del mondo all’interno di un solo contesto ed è diventato un laboratorio su come il mondo si potesse riprodurre insieme alle differenze culturali e all’essenzializzazione dei tratti di culture o luoghi diversi in uno stesso contesto. Questo è meno riconducibile al razzismo quando si immagina la riproduzione di Venice, ma diventa più lampante quando vediamo la riproduzione dei villaggi africani.

Detto ciò, come esperienze recenti dimostrano, non è ancora così lampante che una riproduzione del genere abbia delle basi razziste, proprio perché la retorica è quella di poter mostrare le differenze del mondo e quindi fare un processo educativo, mostrando il mondo a chi non può raggiungere il modello vero. In realtà si tratta di copie senza originale, perché chiaramente non esiste l’originale di questo villaggio, che è ricostruito attraverso stereotipi che diventano spazio, che si materializzano nello spazio attraverso queste ricostruzioni, che non sono ricostruzioni di qualche cosa, ma ricostruzioni tout court, semplificate e con una spazializzazione di quello che è l’immaginario, di quello che sono gli stereotipi, di quello che è lo sguardo dominante.

È a partire da uno sguardo occidentale che si costruisce quel tipo di villaggio ed è attraverso lo sguardo umano che si costruisce lo zoo come spazio del non umano. Lo stesso tipo di logica è quello che sta dietro alle riserve naturali, cioè pensare di poter mettere l’ambiente tra parentesi, di poter far mettere dei confini, dei limiti e delle misure di protezione. Infatti, spesso anche dietro agli zoo c’è questa retorica della protezione delle specie in via di estinzione, magari a causa del bracconaggio, perché «c’è gente cattiva in Africa, che fa questa cosa», e quindi si riproduce questo stereotipo per cui il soggetto occidentale diventa salvatore, in questo caso della natura sotto forma animale.

Questo è legittimato dalla divisione tipicamente coloniale tra natura e cultura, dove alla cultura corrisponde l’umano, e in particolare il soggetto umano bianco, uomo, occidentale, e la natura è tutto ciò che è altro dall’umano. Nell’Ottocento e nel Novecento, durante le conquiste territoriali, è stata utilizzata l’altra parte del binomio per inquadrare tutto ciò che rimandava a un’idea di natura, e quindi le donne e le popolazioni non bianche. È molto interessante e allo stesso tempo raccapricciante leggere i diari dei conquistatori, in cui le descrizioni dei paesaggi e della natura assumevano tratti e parole che venivano poi associati anche alle donne in Europa e in Occidente e alle popolazioni non bianche, soprattutto quelle nere in Africa. Le esposizioni coloniali riportavano poi in Europa tutta quella non umanità (perché l’umanità era intesa come l’uomo bianco occidentale) attraverso la ricostruzione dei diversi Paesi e contesti e attraverso tutte quelle parole che andavano a costruire un immaginario, come ad esempio l’idea dell’istintività, della wildness, e cioè della natura incontrollata e incontrollabile, che sfugge alla razionalità dell’umano, bianco e uomo. È la stessa wildness delle donne e quella usata oggi per descrivere il corpo nero e la sua ipersessualizzazione. Vi erano poi, per fare un altro esempio, tutti i tratti della pigrizia, del non fare niente, che venivano associati alle persone che abitavano in contesti caldi, per cui anche materie come la geografia venivano portate a legittimazione di questo approccio. Ancora, le popolazioni arabe erano descritte come astute, astute com’era astuta la donna e astute come la natura, a cui loro erano molto legati. Insomma, più ti avvicinavi all’altra parte del binomio, che era la natura, e più ti avvicinavi al subumano, fino alla disumanizzazione totale.

 

 

 

 

Il caso eclatante dello zoo di Zurigo, che nel 2020 ha inaugurato un villaggio keniota al suo interno, che restituiva un’immagine stereotipata e razzista di un Kenya tecnologicamente poco sviluppato, ci ricorda come, anche in assenza di esseri umani, l’eredità degli zoo umani ci accompagni ancora. Si tratta di realtà che, anche se meno clamorosamente, sono molto più diffuse di quanto possiamo pensare. Penso a un caso made in Italy, quello di ZOOM, lo zoo di Cumiana, nel torinese, che offre la possibilità di pernottare in un “resort africano”, e quindi di dormire in capanne addobbate con drappi con fantasie “africane” (le classiche fantasie con zebre, giraffe e altri animali stilizzati) e di fare colazione sulla “savana terrace” con le giraffe. Tutto ciò ammantandosi di un sedicente valore educativo. Secondo te che tipo di educazione sta impartendo ZOOM allə suə clienti e allə bambinə?

Io penso che il discorso vada affrontato più in termini di turismo che di educazione, nel senso che l’educazione viene utilizzata per edificare un certo tipo di turismo. Il turismo ha subito un’importante trasformazione intorno agli anni Settanta, per cui ad un certo punto è stato necessario ripensare al turismo, anche nei termini di un’esperienza educativa. Questo soprattutto da quando si è iniziato a parlare di “sostenibilità” nel turismo.

Tra le varie declinazioni di questo tema vi è l’ecoturismo, ovvero un turismo sostenibile non solo a livello ambientale, ma anche per le popolazioni locali. Qui è emerso subito il legame tra la questione ambientale, quella non umana e quella della stereotipizzazione delle comunità locali da parte dell’europeo turista.

Ammetto di non avere i dati aggiornati sottomano, ma non penso siano cambiati poi molto dalle mie ultime consultazioni: se parliamo di turismo a livello internazionale, stiamo parlando del 20% della popolazione che lo pratica, e ovviamente stiamo parlando della popolazione ricca. Elementi come questo muovono anche un turismo locale, ovvero un turismo praticato da persone che abitano vicino al luogo visitato e che desiderano fare un’esperienza immersiva. L’esperienza consiste in un consumo non solo dei luoghi, ma anche dell’immaginario che va a sostenersi sullo stereotipo di quello che si pensa che sia l’altro. Questo non potrebbe esistere se ci fosse una giustizia sociale a livello mondiale. Allo stesso modo, il “resort africano” non potrebbe esistere, perché l’“africano” stesso non esiste. Ciò detto, io però metto sempre in guardia le persone dal rischio di creare quel binarismo per cui da una parte ci sono i bianchi cattivi e dall’altra gli africani buoni, perché ci sono delle persone che si prestano a validare un certo tipo di stereotipo su di sé e sugli altri.

L’esperienza del “resort africano” a ZOOM non è poi così lontana da altre esperienze, mi viene in mente un resort che ho conosciuto diversi anni fa, che riproduceva la vita di una township del sud Africa, mettendo in scena non solo l’alterità africana, ma anche la povertà. Il turismo esperienziale va anche oltre: negli anni Novanta c’era questa agenzia di viaggio che proponeva delle escursioni dal Messico agli Stati Uniti per rivivere l’esperienza dei migranti… però senza essere ammazzati. Queste esperienze vengono inserite nel campo del dark tourism, a differenza dell’esperienza del “resort africano”, che secondo me è dark tourism, perché è a tutti gli effetti turismo della morte, delle vite che non contano. Non è solo biopolitica, è proprio necropolitica nei confronti di tutti quegli individui umani e non umani che vengono sintetizzati e rinchiusi di uno spazio dove possono essere consumati – per cui diventa anche molto chiaro il nesso con il capitalismo.

Gli animali non umani e gli esseri umani in questo tipo di esperienze sono interscambiabili, basti pensare a come lo sono nelle pubblicità di questi resort: laddove non vi è la giraffa, vi è la persona nera che ti serve sorridendo, perché in questo tipo di narrative l’alterità è sia quella degli animali cosiddetti “selvaggi”, sia quella delle persone non bianche. Mi vengono in mente alcune copertine di National Geographic, in cui ancora negli anni Duemila alcune categorie di animali non umani erano interscambiabili con alcune categorie di esseri umani proprio a livello di fotografia: ci sono alcune immagini che vogliono raccontare la foresta “selvaggia”, in cui dalle frasche degli alberi spunta la testa di una persona nera; qualche anno dopo la stessa immagine viene riproposta con la testa di un gorilla… nero. In questi casi è l’immagine ad essere consumata, non l’interazione, dal momento che sarebbe impossibile interagire, e questo attraverso un elemento basilare, cioè l’enfasi data alla vista.

L’enfasi data alla vista nasce nell’Ottocento, in cui attraverso il metodo empirico, ovvero dell’essere lì come spettatore, si costruisce la scienza – perché è vero solo ciò che si vede. Ed è anche in quegli anni che nascono il concetto di paesaggio e di panorama, in cui la persona può stare in alto e guardare dall’alto. A ZOOM non a caso c’è la terrazza, perché la terrazza permette al consumatore di avere una posizione in alto, di dominio. Non si tratta di un’esperienza nuova, ma di un’esperienza costruita nell’Ottocento, che è stata interiorizzata. Si tratta di un’esperienza che ci permette di essere dentro, ma fuori: dentro perché in qualche modo sei fisicamente dentro, però allo stesso tempo da una posizione esterna, privilegiata e dominante, come avviene ad esempio negli zoo safari, un’esperienza immersiva, in cui però si interagisce con gli animali solo e unicamente attraverso lo sguardo, sguardo che tende a vedere i corpi altrui come un qualcosa di unico, una massa facilmente disumanizzabile, mentre il proprio corpo viene astratto da ciò che lo circonda.

 

 

 

 

 

 

 

Andiamo oltre l’umano: un’altra caratteristica che accomuna gli zoo occidentali è l’intento dichiarato dagli stessi di riprodurre un’esperienza immersiva in habitat “esotici”. Nella stragrande maggioranza dei casi, se non in tutti, il principale fattore che influenza la morfologia di questi “habitat” è la riconoscibilità per il pubblico pagante europeo. In questo senso, per fare un esempio, l’Africa, un intero continente, viene ridotto a qualche accenno di savana e a quelle poche specie animali comunemente conosciute in Europa (leoni, zebre, giraffe, e così via), che vengono imprigionate al di fuori del loro contesto. Riconosci anche in questo caso un approccio colonialista a corpi e territori?

Ovviamente sì: è l’approccio moderno, di classificazione tassonomica. Si tratta di un approccio che nasce con Linneo e che ha permesso di classificare innanzitutto la natura, ma poi anche le razze, e quindi le persone.

Pensiamo a come i bambini occidentali imparano attraverso il gioco a inserire umani e non umani nei diversi habitat. Mio nipote ha un libretto intitolato Ciuf-ciuf: Ciuf-ciuf è un trenino che va a vedere habitat e culture diverse nel mondo, in cui animali umani e non umani sono perfettamente interscambiali. E d’altronde scienze come la geografia hanno contribuito in maniera determinante alla divisione e semplificazione delle zone e degli habitat.

La questione educativa è il grandissimo legittimante ed è difficile scardinare questa dinamica, perché le esperienze “immersive” vengono vendute come un qualcosa che facilita la trasmissione dei saperi, anche se di fatto vi è un vero e proprio ribaltamento della pedagogia critica in termini capitalisti, razzisti e specisti.

 

 

 

 

 

 

 

In Italia, come in tutto il mondo, esistono luoghi chiamati “bioparchi”. Questi prendono le distanze dagli zoo tradizionali, perché la loro assenza di gabbie (ovviamente intese come le anguste prigioni con sbarre che abbiamo visto in alcuni zoo) li renderebbe esempi virtuosi di benessere animale e conservazione della specie. Tornando all’esempio di ZOOM, ecco come si presenta nei social media: «Niente reti e gabbie ma cespugli e vasche d’acqua. Il bioparco è nato con l’obiettivo di fare conoscere e proteggere gli animali, conservare e difendere le specie a rischio, sostenere la ricerca e approfondire le tematiche ambientali». Ricorda vagamente un binomio più conosciuto, quello tra allevamento intensivo e allevamento “bio”, come se alla fine gli animali e i loro corpi non venissero comunque utilizzati senza il loro consenso e uccisi. Vedi anche tu questa analogia? Pensi che i “bioparchi” siano davvero modelli virtuosi di convivenza? O sono l’ennesima restituzione edulcorata di un portato profondamente colonialista?

Sicuramente la seconda. La presentazione di ZOOM è una narrativa ossimorica, che potremmo dire basarsi sulla dissonanza cognitiva. Come dici tu, è una narrativa non diversa da quella che si applica nel caso degli allevamenti bio, basti pensare al concetto di happy meat: è una narrativa pensabile solo e unicamente all’interno di una sfera di dissonanza cognitiva. Non si può davvero pensare di mettere questi termini insieme: la vasca d’acqua è un catino, come si può pensare che questa cosa possa essere positiva? Lo è solo perché sfonda la porta aperta della dissonanza cognitiva, per cui se questa realtà esiste, allora per forza deve andare bene così, anzi, essendoci realtà peggiori questa viene addirittura vista di buon occhio.

C’è poi la questione della scienza a servizio della natura. Dando un’occhiata al sito di ZOOM ho notato che vantano la presenza di un gruppo di scienziati che lavorano all’interno dello zoo. In realtà questo succedeva anche negli zoo umani e nei cosiddetti giardini d’acclimatazione. In Europa venivano portate le persone umane, quelle non umane e le specie vegetali, che poi venivano esposte tutte insieme. Adesso non troviamo più la presenza umana, ma è rimasta quella animale e vegetale – pensiamo ai giardini botanici. All’epoca questi zoo umani venivano utilizzati e pubblicizzati per il progresso della scienza: l’Esposizione Coloniale del 1931 a Parigi è stata venduta come una possibilità di avanzamento per la scienza francese, perché questi luoghi avevano a disposizione scienziati addetti a riprodurre il mondo.

Le narrative di ZOOM si tengono in piedi perché alle spalle hanno un discorso che si è costruito e sviluppato in duecento anni: sono le stesse parole, lo stesso tipo di funzione sociale. Anche all’epoca c’era chi non era d’accordo: nel 1931 è stata organizzata anche una Contro-Esposizione Coloniale, però di questo nessuno parla, perché come ogni discorso “contro”, è stato invisibilizzato. Mettere la “natura” tra parentesi, così che gli scienziati possano studiarla, è il centro della modernità occidentale.

 

 

 

 

 

 

 

Per concludere, ti chiederei di commentare una frase di Gay Bradshaw che mi ha colpito molto: «Non c’è nulla di educativo nel vedere qualcunə che viene torturatə. Penso che gli zoo potrebbero diventare educativi solo quando non ci saranno più animali al loro interno e la gente potrà visitarlo, come avviene ad Auschwitz. Se cammini in un campo di concentramento o in una prigione, non hai bisogno di vedere nessunə lì dentro, perché puoi sentire i fantasmi. Puoi sentire il dolore e la sofferenza e le cose terribili che sono successe lì dentro. Da questo punto di vista, penso che gli zoo dovrebbero essere trasformati in musei».

Sicuramente è una frase forte, perché fa un paragone che può essere molto discutibile e che interpella quello che è il punto nevralgico della storia dell’Europa in particolare e dell’Occidente in generale.

Il punto secondo me è avere un approccio sempre più critico, di decostruzione e di resistenza alla colonialità del sapere. È necessario un processo di coscientizzazione che ci porti a capire come il sapere non è mai neutro e come è fondamentale individuare e depistare gli ossimori di cui sopra. Solo così saremo in grado di capire che questi luoghi non hanno alcuna legittimità di esistere. È un processo semplicissimo: basterebbe eliminare quella patina che non ci permette di vedere le cose per come sono, perché il sistema dominante e il linguaggio comune hanno portato a interiorizzare la normalizzazione di quelle cose. Come dice bell hooks, bisogna immaginare alternative e nuovi mondi, bisogna creare un nuovo modo di pensare e di costruire il mondo, attraverso la resistenza.

Pensiamo ai rifugi: non sono solo una critica, ma sono anche la realizzazione dell’utopia. In questo senso, il rifugio è una concretizzazione materiale della resistenza, della cura, delle alleanze e delle complicità. Volendo, anche il rifugio può essere considerato uno spazio tra parentesi, non perché mette la natura tra parentesi, come fa lo zoo, ma perché crea una parentesi rispetto a un sistema di oppressione dominante, quello della supremazia specista. In questo senso diventa una zona autonoma temporanea – temporanea perché, come tutte le zone autonome, fa fronte al tempo e anche al tempo della vita di chi lo abita e lo attraversa. Ed è per questo che la critica agli zoo potrebbe passare anche attraverso la visibilizzazione di questi spazi di resistenza.

 

 

 

 

 

Susanna e Agostina nel rifugio per animali liberi Ippoasi (PI)