StopCasteller e gli orsi prigionieri: una lotta intersezionale

di: Marco Reggio

Fonte: Intersezionale Magazine, 11 marzo 2021

Alcune considerazioni in vista del corteo nazionale del 10 aprile

Una lotta che nasce da una ribellione

Nella notte del 24 luglio dello scorso anno, gli organi di stampa danno notizia della fuga di M49, orso detenuto nella struttura del Casteller, a Trento. M49 era stato castrato chimicamente, munito di radiocollare e si trovava in una struttura rinforzata con una barriera elettrica a seguito di una precedente fuga. Eppure, riesce a superare la barriera, raggiunge l’ultima recinzione, la forza in diversi punti fuori dalla vista delle telecamere, e trova la libertà. Scavalca una barriera di 4 metri e tre recinti tra i 7.000 e 9.000 volt che lǝ espertǝ consideravano insuperabile.

Verrà catturato a settembre e riportato in gabbia trionfalmente dopo essere stato narcotizzato. Era scappato dal Casteller la prima volta il 15 luglio 2019, a un’ora dalla cattura, avvenuta a seguito delle denunce di danni degli allevatori locali. Era rimasto latitante per molti mesi, fino al 28 aprile 2020. Ora si trova rinchiuso insieme ad altri due orsi che la Provincia Autonoma di Trento, con in testa il leghista Fugatti, considera “problematici”: DJ3 (figlia di Daniza, l’orsa più tristemente nota perché a lungo ricercata e poi uccisa nel 2014) reclusa da 9 anni (metà della sua vita) ed M57, che ha trascorso solo due anni in libertà prima di essere imprigionato (la vita media di un orso in natura è fra i 30 e i 35 anni).

Il 18 ottobre 2020, un corteo nazionale convocato da Assemblea Antispecista, Centro Sociale Bruno di Trento e altre realtà fra cui Fridays for Future Trento e Rise Up 4 Climate Justice, raggiunge il Casteller con 500 attivstǝ. Lo slogan del corteo, “Smontiamo la gabbia”, anche se è ispirato a un libro antispecista, è ben più di un riferimento simbolico: diversǝ attivistǝ, durante la giornata, distruggono decine di metri della recinzione esterna del centro di detenzione, lanciando ufficialmente la campagna #StopCasteller per la chiusura della struttura, la liberazione degli orsi e una svolta nella gestione della convivenza fra specie diverse in Trentino.

La vicenda di M49, infatti, si inserisce in una storia ben più ampia e di lunga durata, iniziata nel 1996 con il progetto Life Ursus. Parco Naturale Adamello Brenta, insieme a Provincia Autonoma di Trento e ISPRA, reinserisce nel territorio dieci adulti fra il 1999 e il 2002, accedendo ai fondi LIFE dell’Unione Europea. Nel 2018 la popolazione raggiunge i 50 esemplari, come preventivato. Nel frattempo, però, 34 orsi sono stati uccisi – intenzionalmente o “per errore” durante la cattura – o imprigionati, o sono scomparsi. La gestione degli orsi è diventata negli anni sempre più ostile a questi esemplari, che erano stati inseriti sul territorio per accaparrarsi i fondi europei e per dare slancio al turismo: un crescendo di misure repressive che ha caratterizzato ogni colore politico, ma che trova il suo apice con l’attuale giunta leghista.

Tutto ciò nonostante nel 2008 un tavolo tecnico interregionale avesse redatto il “Piano d’Azione interregionale per la Conservazione dell’Orso Bruno sulle Alpi Centro-orientali” (PACOBACE), poi adottato dalle amministrazioni provinciali e regionali con l’approvazione del Ministero dell’Ambiente. Il PACOBACE prevedeva indicazioni per le attività di tutela degli orsi, attività di monitoraggio, interventi veterinari, indennizzi per i danneggiamenti e una serie di procedure di intervento nei casi di rischio. Misure in larga parte disattese da Fugatti a favore di una gestione muscolare e guerrafondaia dei problemi (o supposti tali) che privilegia l’abbattimento o la cattura e la reclusione, tutte misure che dovrebbero costituire, secondo il PACOBACE stesso, l’extrema ratio nei casi più gravi. Le attività di educazione alla convivenza fra umani e orsi sul territorio, che avrebbero potuto fare la differenza accanto ad altre misure a costo contenuto e per le quali esistevano i fondi europei, non sono state sostanzialmente messe in campo, contribuendo a creare una (non)cultura della convivenza in quei boschi che, dopotutto, non sono di proprietà dei soli umani.

LA PRIGIONE DEL CASTELLER

Probabilmente, se un’opposizione concreta e radicale a tali politiche ha preso corpo lo si deve, oltre che alla caparbietà di M49, alla divulgazione di un rapporto del CITES (la Commissione Scientifica per l’applicazione della Convenzione sul commercio internazionale di specie animali e vegetali in via di estinzione, Ministero dell’Ambiente) sulle condizioni di detenzione dei tre orsi del Casteller. Nella relazione, pubblicata a settembre dello scorso anno, si legge una minuziosa cronaca del progressivo degradamento delle condizioni di vita di M49, DJ3 ed M57: “tutti e tre gli orsi versano in una situazione di stress psico-fisico molto severa, dovuta in primis alla forzata e stretta convivenza dei tre esemplari, contrariamente a quanto permette la base etologica di specie ed alle ridotte dimensioni degli spazi a disposizione”. Gli orsi esprimono comportamenti nevrotici e stereotipati: “M49 ha smesso di alimentarsi e scarica tutte le sue energie contro la saracinesca”, “M57 si alimenta, ma ripete costantemente dei movimenti in maniera ritmata, prodromo di stereotipia”. Ad entrambi vengono ormai da tempo somministrati psicofarmaci (ansiolitici). Il linguaggio è fra il medico, l’etologico e lo psichiatrico, e la relazione è un vero e proprio diario clinico che documenta da marzo a settembre ogni singola giornata di prigionia. Uno scritto che parla più di mille immagini, suscitando angoscia e tristezza immense.

Le immagini, in effetti, sono sempre state scarse e – relazione del CITES a parte – l’amministrazione provinciale ha continuamente sostenuto che, dopotutto, gli orsi stessero “bene”, mobilitando la tipica nozione di “benessere animale”, come se potesse esistere qualche tipo di benessere per degli individui che in natura percorrono fino a 20 km al giorno, come se potessero bastare dei risibili allargamenti dello spazio disponibile, delle cure veterinarie o qualche arricchimento ambientale. E come spesso accade in questi casi, si fanno avanti i gestori dell’animal welfare per eccellenza: l’Ordine dei Veterinari trentini si offre di istituire un comitato etico che supervisioni il trattamento “umano” dei reclusi.

Le immagini sono scarse, anzi inesistenti, perché Fugatti, che afferma di non avere nulla da nascondere, impedisce qualsiasi tipo di ripresa o di fotografia nella struttura, tanto che neppure due parlamentari che, sull’onda della risonanza del corteo di ottobre, riescono a entrare per una breve visita (non senza essere state respinte e aver dovuto chiamare i carabinieri), possono documentare alcunché. Così, all’inizio di febbraio, il Centro Sociale Bruno di Trento diffonde un video in cui alcunǝ attivistǝ, dopo aver tagliato una recinzione e avere scavalcato una barriera, riescono a giungere alle gabbie vere e proprie e a filmare le reali condizioni e gli orsi stessi. L’azione suscita grande clamore, anche fuori dai confini italiani, producendo qualche relazione scomposta, come quella dell’amministrazione che dichiara di voler denunciare gli ignoti che si sono introdotti nell’area. Del resto, il video ha sbugiardato tempestivamente le affermazioni pubbliche dell’Assessora Zanotelli, che aveva dichiarato davanti ai microfoni di LA7 che non c’è da preoccuparsi perché i tre orsi sarebbero ormai in letargo.

Viene indetto un nuovo corteo nazionale “Smontiamo la gabbia” per il 10 aprile a Trento. Nel frattempo, diversi soggetti cercano di venire in aiuto a Fugatti, proponendo soluzioni alternative piuttosto fantasiose. Fra queste, quella di Brigitte Bardot, che ipotizza il trasferimento del solo M49 in un “rifugio” bulgaro, dove lo spazio disponibile sarebbe maggiore. Un’idea solo apparentemente risolutiva, per diversi motivi. A fronte di uno spazio solo di poco più ampio, M49 dovrebbe sopportare nuove convivenze forzate in un luogo pensato per tutt’altro tipo di ospiti: la struttura accoglie infatti i cosiddetti “orsi ballerini”, orsi che provengono da una condizione di cattività e sfruttamento e che hanno esigenze ben diverse da quelli trentini, nati in libertà. Questi ultimi avrebbero insomma ben altre difficoltà di adattamento, e la loro condizione di partenza non vedrebbe neppure un piccolo miglioramento; per mettere in atto una misura che riguarda più l’immagine che la sostanza, M49 dovrebbe subire lo stress di un lungo viaggio con sedazione. Fugatti sembra però prendere in considerazione la soluzione, che in realtà è inaccettabile non solo per M49, ma anche per gli altri due reclusi e soprattutto per tutti quelli liberi nei boschi del Trentino su cui pendono ordinanze di cattura, ipotesi di abbattimento e, in generale, una dichiarazione di guerra da parte della giunta leghista. Infatti, in questi mesi Fugatti si è distinto anche per le ordinanze contro diversi esemplari colpevoli solo di essersi comportati da orsi, ordinanze contestate legalmente e fieramente difese da Fugatti stesso. Sembra quasi che la deportazione di M49 possa consentire di rendere disponibile un “posto” al Casteller per il prossimo malcapitato.

Che cosa c’è sotto a questo conflitto? Quali domande emergono dalla lotta fra la visione delle istituzioni locali (sostenuta di fatto da quelle centrali) e la mobilitazione dal basso per la liberazione degli orsi?

DEGRADO, DECORO, RAZZA

In generale, è evidente che si parla di individui che possono essere visti in modi opposti: problematici, per usare un termine ricorrente in questi mesi, oppure autodeterminati. Quando un soggetto viene considerato problematico – per esempio perché danneggia un raccolto o assale un capo di bestiame, o semplicemente perché si avvicina a un centro abitato – si attivano le categorie del “decoro” e del “degrado”, un binomio che ben conosciamo nelle aree urbane perché costituisce il mantra della gestione dei soggetti scomodi, indecorosi appunto, ripetuto a destra e a sinistra nel nostro paese, da Minniti a Salvini. Soggetti indecorosi perché senza reddito, mendicanti, perché non (abbastanza) bianchi, perché colonizzati, perché non conformi alle norme di genere, o per altri motivi ancora. Gli orsi fanno parte di questa schiera, suscettibile di comprendere un numero molto ampio di persone, quando non stanno “al loro posto”, cioè al posto assegnato dall’umano, e in special modo da chi fra gli umani determina le politiche di sviluppo del territorio. In fondo, la migliore sintesi di questa logica la fornisce un comunicato stampa dello stesso Fugatti sull’incontro del 2 marzo con la Ministra dell’Interno, in cui la gestione degli orsi è espressamente trattata come un problema di ordine pubblico, accanto ai femminicidi (il Presidente della Provincia di Trento riesce in colpo solo a svilire il tema della violenza maschile sulle donne e a caricare di una coloritura securitaria quello della convivenza con i grandi carnivori).

Ma, come ha detto un compagno durante un’assemblea pubblica, non dovremmo accettare i termini della questione, anzi, il termine della questione: “problematico”. Non dovremmo accettare di parlare di soggetti dotati di agency come “problematici”, perché questo aggettivo, applicato a degli orsi, è figlio della stessa logica per cui poi sono “problematici” i senza tetto, lǝ sex workers, le persone con diagnosi di malattia mentale: la logica dei TSO, del DASPO urbano, dei fogli di via… In gioco c’è invece l’autodeterminazione, appunto. La stessa che viene rivendicata da M49, implicitamente, quando scavalca un recinto per riprendersi la libertà, e che tuttavia non è appannaggio degli animali selvatici: come documentato dal collettivo Resistenza Animale, anche gli animali “da allevamento”, così come quelli reclusi negli zoo, nei circhi e nei laboratori, si ribellano, fuggono e talvolta riescono a formare comunità indipendenti sul territorio. In ogni caso, mostrano con le azioni i propri desideri, il proprio dissenso e chiedono solidarietà. E la solidarietà non può più essere paternalista, non può più mostrare quell’atteggiamento da “human saviourism” che ha per troppo tempo contraddistinto i movimenti animalisti.

Che sia all’opera una distinzione razzista fra chi può e chi non può attraversare i confini sanciti da altri, è evidente se guardiamo alle recenti dichiarazioni dell’Assessora Zanotelli. In risposta a un’interrogazione di una consigliera di opposizione, Zanotelli afferma che “l’uomo e gli altri animali non hanno pari dignità di vita e di diritti: il diritto alla vita ed alla dignità dell’uomo [sic] è prioritario rispetto a quello degli animali, se non altro perché così prevede la Costituzione”. Assemblea Antispecista ha definito questa risposta come una “strumentalizzazione fascista della Costituzione”, proprio perché la Costituzione nomina il concetto di razza in senso antifascista. Ironia della sorte, un’esponente del partito che promuove respingimenti e affondamenti dei barconi, si appella alla carta costituzionale per legittimare gli abbattimenti.

ALLEANZE MOSTRUOSE

Ma è chiaro che è qui in gioco un conflitto fra visioni dello “sviluppo” e del modo di vivere la montagna. Un conflitto che inevitabilmente si lega ai grandi temi ecologici che da qualche anno sono diventati ineludibili per chiunque. Le valli alpine, per una certa classe politica, sembrano essere al contempo una risorsa da sfruttare e uno scenario da allestire. Gli orsi, scomparsi da queste zone da secoli, vengono artificialmente riportati sul territorio per finire – prima ancora che nei boschi – nei loghi degli Uffici Turistici, sui siti promozionali, sulle etichette dei prodotti locali. Sono un simbolo da sfruttare prima ancora che una specie da conoscere. E infatti, al sorgere delle prime difficoltà diventano “problematici” e la risposta dei leghisti, ai tempi all’opposizione, sono i banchetti a base di carne d’orso: l’estrema forma di riduzione a mero corpo consumabile. Gli orsi sono un simbolo: prima dei simpatici peluches, poi degli aggressori contro cui la retorica è quella dello stupratore africano, che attenta alla tranquillità delle famigliole in gita, la “nostra gente”.

La scrittrice ecofemminista Val Plumwood, nel celebre articolo “Essere preda”, narra il suo incontro, quasi letale, con un coccodrillo in Australia. L’autrice racconta come la disavventura, nonostante si fosse conclusa positivamente proprio grazie alla sua determinazione e alla sua forza fisica, non fosse sfuggita all’“appropriazione maschilista”. La narrazione maschile dello scontro si caratterizza, in questi casi, per una serie di elementi: la passivizzazione della vittima (una donna inerme che si trova dove non dovrebbe), l’esagerazione delle dimensioni o dell’aggressività del “mostro”, la sessualizzazione dell’aggressione. Il coccodrillo sadico diventa il maschio-rivale da cui salvare la donna inerme: oggi le destre parlano insistentemente di aggressioni a “le nostre donne” da parte di soggetti razzializzati. E non è un caso che, come fa notare la scrittrice, agli attacchi dei coccodrilli seguivano spesso rappresaglie con stermini di massa, come se un grande predatore che vive in un luogo selvaggio commettesse un affronto imperdonabile cercando di nutrirsi di un esemplare di umano (ossia di una preda). Secondo Plumwood, il problema centrale risiede in una concezione dell’identità umana che “colloca la nostra specie al di fuori e al di sopra della catena alimentare, non in quanto partecipante al banchetto in una catena di reciprocità, ma come manipolatori esterni e come suoi padroni: gli altri animali possono essere cibo per noi, ma noi non possiamo mai esserlo per loro”.

Torniamo in Trentino. La sensazione è proprio che gli orsi osino fare gli orsi, e che scandalosamente tocchino l’intoccabile: un capo di bestiame, un recinto, un’arnia, persino un cassonetto della spazzatura. Si tratta, in sostanza, di proprietà umane, comprese le occasionali pecore che ne fanno le spese, nelle quali gli allevatori a caccia di risarcimenti non vedono altro che una fonte di reddito (non è certo l’interesse della pecora a non essere uccisa ad essere preso in considerazione, qui). La narrazione delle (rarissime e di certo non gravi) aggressioni agli umani è lì a testimoniare di una concezione di minaccia esterna a una sfera considerata intoccabile: i racconti sono sensazionalistici, le eventuali ferite e il rischio di morire ingigantiti a dismisura, le motivazioni (tendenzialmente ascrivibili a estrema ignoranza dei comportamenti da tenere nel caso di incontro con un orso) omettono i comportamenti sconsiderati delle persone per sottolineare invece una cieca ferocia dei plantigradi. Il territorio stesso, i boschi, i prati, le valli, sono “di diritto” assegnati all’umano, che può devastarli, cementificarli, sfruttarli, ma non può tollerare che le altre specie li attraversino guidate dai loro naturali bisogni. Il Trentino stesso, infatti, è teatro delle tipiche pratiche estrattive/distruttive, quelle che, estraendo valore dal territorio lo distruggono giorno dopo giorno: l’edilizia sregolata, la cementificazione, le “grandi opere” (anche in questi luoghi sta per arrivare l’Alta Velocità, la TAV, per non citare che la più significativa delle infrastrutture ad alto impatto ecologico). Gli orsi che resistono alla cattura dandosi alla macchia, che si comportano da orsi e non da mascotte turistiche, che violano i confini, sono parte di una resistenza più ampia a queste politiche, una resistenza che si sta costruendo a partire dalla possibilità di alleanze fra specie diverse e, all’interno della specie umana, fra istanze tradizionalmente ben distinte: l’ecologia, l’antispecismo, il transfemminismo, l’anticapitalismo.

Si tratta del nascere di pratiche intersezionali che superano un certo modo di perorare la causa dei diritti animali, una modalità purtroppo diffusa e sovra-rappresentata nel discorso pubblico, quella tendenza a vedere nella questione animale un problema a sé, in cui “la politica” non c’entra, in cui gli umani sono tutti “cattivi”, indistintamente (dal capo della multinazionale zootecnica al semplice consumatore/trice di alimenti derivanti dallo sfruttamento animale, giù giù fino agli abitanti dei paesi colonizzati che dal privilegio di appartenere alla specie dominante non traggono certo grandi benefici). Come se, appunto, la questione della reclusione degli orsi potesse essere scissa da tutta una serie di questioni che riguardano le politiche “umane”, come i confini, il territorio, il diritto a circolare, l’autoritarismo crescente delle istituzioni, e così via. La logica dell’animalismo “classico”, che è apolitico, qualunquista, trasversale al punto da finire spesso nelle braccia delle destre è del resto la stessa logica che ha portato le sacrosante manifestazioni contro la gestione degli orsi a esprimere un evidente razzismo anti-trentino. Se negli ultimi anni i cortei o le proteste on line si sono spesso sviluppate intorno allo slogan “trentini assassini” – come se tutta la popolazione dovesse inevitabilmente condividere le scelte di chi la governa – oggi questa contraddizione emerge in tutta la sua evidenza, considerato che è esattamente una parte della popolazione trentina (dal Centro Sociale Bruno agli studenti medi e universitari, a tante singole soggettività) a mobilitarsi contro il Casteller e la concezione che lo rende possibile.

Per approfondire: assembleantispecista.noblogs.org