Un nostro contributo sull’ultima campagna di Coop “Alleviamo la salute” per Globalproject.
Non dovremmo arrivare a disturbare luminari della teoria antispecista per supportare l’idea che non esiste una qualsivoglia modalità etica di sfruttare e uccidere gli animali non umani, ma dal momento che narrative di bioviolenza [1] sono sempre più di moda, addirittura tra chi si occupa di ambiente ed ecologia, partiamo da una banalità e disturbiamo l’attivista femminista antispecista Carol J. Adams: «la carne biologica locale […] non può rispondere ai desideri di consumo dell’intera popolazione statunitense [e tantomeno mondiale]. Ritengo perciò che l’idea della carne biologica sia un modo per evitare di prendere in considerazione il fatto che non abbiamo bisogno di mangiare animali. […] Questi fenomeni inoltre suggeriscono implicitamente che il problema non sia l’uccisione in sé. Io credo invece che il problema sia proprio l’uccisione degli animali. […] Gli animali rimangono mezzi per un fine, ma un “assassinio amichevole” è pur sempre un assassinio». [2] Questo è un discorso che vale su tutti i livelli: dal colosso Fileni BIO, alla cooperativa sociale o gruppo di acquisto solidale di fiducia, fino a Slow Food e altro. Non importa quanto sia virtuoso l’esempio dell’azienda, della cooperativa, del progetto o del movimento sotto il punto di vista dell’aderenza etica e politica all’ideale bio e green: imporre il proprio dominio, controllo e interesse economico su individui che dovrebbero essere liberi e, ça va sans dire, senza il loro consenso, per sfruttarli, ucciderli e trasformare i loro corpi è sempre violento – violentissimo, a dirla tutta.
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